Carissimi,
in questo giorno segnato dal dono dello Spirito alla sua Chiesa, mediante il segno dell’olio portatore di letizia, di esultanza come ci guiderà ad affermare la liturgia, desidero rivolgermi in particolare a voi, cari figli e fratelli sacerdoti, posti come pastori e guide del popolo di Dio, rivestiti di questo alto e delicato compito nonostante le fragilità della nostra vita.
Quanto sto per comunicarvi, come riflessione del cuore, lo sento anche importante per ogni credente che con cuore sincero si apre al Signore della vita.
C’è un passaggio, dato dal versetto responsoriale del salmo, che afferma: Canterò per sempre l’amore del Signore.
Mi ha subito rapito non solo perché richiama il motto episcopale da me scelto, ma soprattutto percchè ci riconduce all’essenza del nostro essere presbiteri che, come afferma San Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi, nasce per grazia di Dio, e non da noi, e si dispiega come ministero di misericordia per gli altri.
Canterò per sempre l’amore del Signore.
Il versetto ci aiuta a decodificare quanto la Parola oggi ci comunica in tutti i brani ascoltati.
Dio e l’azione del suo Spirito d’amore in Cristo Gesù sono all’origine della salvezza operata per l’umanità.
Di questa opera di salvezza noi siamo stati resi annunciatori, strumenti di grazia, di misericordia.
Quant’è reale quest’affermazione! Quante volte nel segreto del confessionale abbiamo sperimentato nell’umile ministero della riconciliazione la grandezza di Dio che si manifestava dinanzi a noi attraverso le anime accostate, consolate e incoraggiate!
Ecco, quest’oggi, con umiltà desidererei condurre voi e me attraverso una breve riflessione a disegnare alcuni passaggi che sento importanti per continuare a percepire questa profonda verità su noi stessi: “siamo stati scelti per misericordia” e chiamati a vivere “per cantare la Sua misericordia”, il suo amore.
Tre punti desidero offrire alla nostra riflessione e li prendo da un dialogo famoso intercorso tra Gesù e Pietro nel vangelo di Giovanni, al capitolo 21:
- La sfida della preghiera
- La tentazione e il rimedio per il nostro ministero.
- L’abbandonarsi ad un abbraccio d’amore.
- La sfida della preghiera.
C’è una domanda alla base del nostro ministero. È la stessa domanda posta a Pietro da Gesù sul lago di Tiberiade, dopo la risurrezione: “Simone di Giovanni mi ami tu più degli altri?”, e poi ancora: “Mi ami Tu?” (Gv 21).
Pensiamoci, è strano! Gesù che ha consumato la sua vita nell’annunciare amore, ora chiede amore.
Gesù sta tentando di condurre il cuore di Pietro a contattare il suo su un piano puramente umano, liberando Pietro da quell’ansia di prestazione che lo aveva portato alle soglie del tradimento.
In fondo Gesù ci sta chiedendo di radicare la nostra vita non tanto sulla base di quello che sappiamo o non sappiamo fare per lui, ma solo e soltanto sulla forza di una relazione vera, ricca di amore generoso.
Si tratta di entrare in una relazione cuore a cuore, lasciandosi toccare le viscere della vita: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi ed io vi ristorerò” (Mt 11,28).
Solo quando impariamo a vivere a partire dalla conoscenza personale dell’amore di Dio per noi, sentendoci amati per quello che siamo, e non per quello che vorremmo essere o pensavamo di essere, solo allora il nostro cuore di presbiteri si apre e diviene capace di portare consolazione, guarigione, riconciliazione, annunci di speranza, vita nuova.
Prima che preoccuparci delle cose del mondo, prima che desiderare di apparire gradevoli e convincenti, siamo chiamati ad essere mistici: profondamente radicati nel suo Cuore.
Ecco la disciplina da vivere: imparare a stare alla presenza di un Dio che a me si rivolge chiedendomi: “Mi ami tu? ”.
Oggi più che mai la realtà che ci circonda manifesta sete di Dio, e non basta essere preparati, desiderosi di aiutare il prossimo e nemmeno persone dalla salda moralità.
Queste cose pur importanti necessitano di una virtù prioritaria: essere uomini di Dio (vorrei dire uomini e donne di Dio, perché tutti siamo chiamati a esprimere un radicamento in Lui).
Una volta, e fino a non molto tempo fa, prima che diventasse disciplina accademica, la parola teologia aveva il significato di “unione con Dio nella preghiera”.
Oggi il popolo di Dio ha bisogno di questo, di ministri saldamente radicati in una intimità personale con Dio fonte della vita. È il vivere la preghiera come stato permanente del nostro agire che ci rende attenti e vicini alla gente senza essere relativistici, convinti senza essere rigidi, gentili senza essere fiacchi.
- La tentazione e il rimedio per il nostro ministero.
Inutile ribadirlo che il nostro tempo è ammalato di individualismo, c’è un’operazione culturale che tocca anche noi ministri di Dio: si sta svuotando la persona e la sua relazione con gli altri per mettere al centro l’individuo, un contenitore vuoto capace solo di essere soggetto di bisogni da esaudire, bisogni non reali ma spesso indotti dal mercato e dai media occulti.
Anche i nostri presbitéri risentono di questa fatica: trovare la via della relazione autentica, fraterna, collaborativa.
Spesso viviamo come acrobati, funamboli, che cercano di camminare su una fune sottile, sempre in attesa di applausi, di riconoscimenti, nella speranza di non cadere, di non rompersi il collo.
Un certo divismo ed eroismo individuale, aspetti di questa società competitiva, non sono estranei come tentazione alla Chiesa di oggi.
Anche Gesù fu tentato nel deserto in questo modo: “Gettati giù dal pinnacolo del tempio e lascia che gli angeli ti sorreggano e ti portino tra le loro braccia” (cf Lc 4, 9-10).
Ecco ciò che rischia di avvelenare il nostro ministero, rendendolo un’avventura personale e non comunitaria.
La risposta a ciò la troviamo sempre in quel meraviglioso dialogo tra Gesù è Pietro: “Pasci le mie pecore” (Gv 21, 17).
È nell’affidamento pastorale del suo gregge, del suo popolo, che Gesù ci indica l’atteggiamento da vivere per evitare questa tentazione della vita.
L’Apostolo non viene incaricato di una missione eroica, solitaria, ma alla luce di quanto Gesù ha già detto, Pietro individua le coordinate di un ministero improntato alla comunione e alla reciprocità.
Sì! Gesù ha inviato i suoi a due a due e non da soli: l’annuncio del Vangelo è sempre comunitario.
“Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualcosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 19).
Inoltre il ministero sacerdotale è chiamato a vivere la reciprocità, come afferma Gesù:
“Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore” (Gv 10, 14-15).
Gesù desidera che ci prendiamo cura degli altri non come professionisti del disagio, dall’alto delle nostre competenze, ma come accompagnatori umili che curano e sono curati, parlano e “si lasciano parlare”, perdonano e sono perdonati, amano e si lasciano amare.
Anche noi, lontani da ogni delirio, dobbiamo comprendere che non siamo noi a riconciliare, a guarire, a dare speranza.
Come gli altri, noi siamo persone segnate dal peccato, vulnerabili e bisognose di cura, ma proprio qui sta il mistero del nostro ministero : proprio noi, così conciati, siamo stati scelti a trasmettere mediante il nostro essere pieno di limiti, l’amore grande e incondizionato di Dio, per amor suo, solo per amor suo.
È in questo senso che dobbiamo imparare a vivere il nostro essere vulnerabili, non in maniera nascosta, mascherata, idealizzando il nostro ministero e rischiando di cadere in una solitudine disperata o in una doppia vita, ma avendo il coraggio di riconoscere i nostri limiti vivendo confessione e perdono all’interno del sacramento e nelle nostre relazioni.
- L’abbandonarsi ad un abbraccio d’amore.
È sempre nel dialogo con Pietro, alle battute finali, che trovo la terza intuizione da proporre.
Gesù fa riferimento ad un tempo in cui l’Apostolo dovrà fidarsi più che di se stesso dell’altro, di Dio, e camminare su vie non pensate e non desiderate: “In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21, 18).
Guai a noi quando desideriamo interpretare la nostra vita a partire dal potere e dall’esercizio del controllo sul nostro destino.
Gesù ci dice con chiarezza che maturità di vita nel ministero è la capacità e la disponibilità a lasciarsi condurre dove non si vorrebbe. La guida che serve i fratelli è guida che dà fiducia alla provvidenza e si lascia condurre in luoghi sconosciuti, indesiderabili e talvolta dolorosi.
La via del ministro di Dio non è quella che ambisce alle altezze mondane ma vive la logica del Cristo che “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma spogliò se stesso…sino alla morte di Croce” (Fil 2, 6-7).
Anche se chiamati ad essere guide dobbiamo imparare a lasciarci condurre in una obbedienza alla vita.
In tal senso ci è d’aiuto il discernimento non emotivo, superficiale, ma profondo, aperto all’intimità con Dio, capace di coinvolgere corpo, mente e cuore.
Solo il lasciarci abbracciare da Dio e dalla sua logica di vita carica di compassione per noi ci permetterà di sperimentare la sua misericordia come fonte di salvezza per noi.
Non c’è niente di nuovo in quanto vi ho detto, ma solo tanta passione per il dono che Dio ha posto nelle nostre mani e tanto affetto per voi, miei cari fratelli nel sacerdozio.
E a voi, fratelli e sorelle, che nel battesimo siete stati oggetto della misericordia di Dio, chiedo con forza: amate i vostri sacerdoti, abbiatene cura, accompagnateci con la preghiera e correggeteci con amore fraterno.
Dio Padre di misericordia sostenga il nostro cammino di Chiesa e ci renda un cuor solo e un’anima sola per cantare in eterno con la vita il suo amore per sempre.
Così sia!
+ don Giuseppe SATRIANO