Lettera aperta alle Istituzioni sul delicato tema del caporalato e del lavoro nero

Al Direttore INPS

Al Direttore ASP

Al Prefetto di Cosenza

Al Sig. Sindaco di Rossano

Al Sig. Sindaco di Corigliano

Alla Società Civile

 

L’Arcidiocesi di Rossano-Cariati, attraverso gli uffici diocesani della Migrantes, Pastorale Sociale e Lavoro, del MLAC (Movimento Lavoratori Aziona Cattolica) e della Caritas, desidera sottoporre all’attenzione di tutte le Istituzioni e dei cittadini quanto segue.

Il mondo del lavoro, soprattutto in questo periodo, nel territorio della nostra diocesi, è caratterizzato da fenomeni di fronte ai quali non possiamo rimanere indifferenti. Ci riferiamo al “caporalato”, al “lavoro in nero” e ad altre forme di sfruttamento che affliggono non solo tanti nostri concittadini, ma anche migliaia di fratelli e sorelle che vengono da diversi Paesi del mondo come lavoratori stagionali.

Tutti sappiamo che il caporalato è la relazione tra un datore di lavoro che può essere terriero o di edilizia ed un uomo (caporale) che va alla ricerca di persone a giornata per conto del primo. Ora, partendo dal fatto che i lavoratori sono già in nero poiché chiamati “a giornata”, vengono dal datore di lavoro sottopagati e senza tutti i necessari riguardi verso di essi. A questo bisogna aggiungere il compenso in percentuale che bisogna versare al caporale per aver trovato il lavoro. Quello che rimane al lavoratore è meno che niente.

Il “lavoro in nero” è diverso dal caporalato perché non c’è la relazione della terza persona. In questo caso gli accordi vengono presi tra datore di lavoro e lavoratore, ma intercorrono altre puntualizzazioni come la promessa della disoccupazione o della malattia. Questa viene versata direttamente agli uffici di competenza, per cui il datore di lavoro dichiara che i lavoratori sono in regola, ma in realtà questi ultimi non riceveranno mai un centesimo dai primi e quindi si ritroveranno a lavorare gratuitamente per un padrone, non più di una terra, ma della persona stessa. A questo si aggiunge che, per poter riscuotere l’indennità di disoccupazione e per il diritto all’assistenza sanitaria, è necessario essere in possesso della carta di identità, che si ottiene solo con l’acquisizione  della residenza anagrafica. Quest’ultima, a sua volta, si può avere se si ha un contratto di lavoro regolare e un contratto di fitto, per il quale, spesso, vengono chieste somme onerose.

Dal lavoro in nero si aprono molte altre sfaccettature che, pur se conosciute, non vengono dichiarate, oppure vengono accettate dal lavoratore stesso. Ad esempio il lavoro che viene esercitato nei negozi e centri commerciali, dove il lavoratore firma un contratto vero e proprio con la ditta che garantisce uno stipendio pieno, una pausa, le ferie, le malattie e i contributi. Ma, al momento del ricevimento dello stipendio, il dipendente se lo si ritrova decurtato di due terzi, tra l’altro con meccanismi al quanto strani, come il far incassare l’assegno all’intestatario e poi, tornato in azienda, restituire la parte che viene trattenuta; il lavoro viene prolungato dalle dodici alle quindici ore giornaliere senza pausa o se c’è viene definita “pausa sigaretta” e niente più; il licenziamento, senza vere e proprie motivazioni e potremmo andare ancora avanti.

Il lavoro minorile non dichiarabile in nessun modo, non dimostrabile neanche concretamente. Quindi si creano accordi verbali tra il datore di lavoro e il genitore del minorenne il quale, sottopagato, non sostenuto da eventuali infortuni, compie mansioni per la maggior parte nei campi e nell’edilizia.

I lavoratori stranieri, africani, pakistani, rumeni, verso i quali, spesso, si diffonde la convinzione che vengono a derubare il lavoro ai nativi del posto vivono in condizioni di vera e propria schiavitù. Infatti sono sottopagati o non pagati del tutto, senza servizi igienici, costretti a dormire in dieci o più in una camera, senza cibo perché non retribuiti, ricattati dai loro stessi conterranei che ne diventano caporali fino a diventare fantasmi dello stesso territorio in cui vivono.

 

Vogliamo, quindi, gridare con forza che questi fenomeni, in una società definita civile, non possono essere più tollerati. Chiediamo a chi di dovere il coraggio di far in modo che le dovute precauzioni vengano messe in atto, così come dichiara il dispositivo dell’art. 603 bis del Codice Penale e tutte le leggi che tutelano i lavoratori.

Del resto, la nostra Costituzione proprio all’art. 1 recita: «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro».

Bisogna, perciò, individuare un piano strategico di lungo respiro, che coinvolga le istituzioni pubbliche, le aziende e/o cooperative che operano nella legalità e le Parti Sociali, per liberare i tanti lavoratori che sono finiti nella pericolosa trappola  del caporalato,  perché il lavoro sia  “libero, creativo, partecipativo e solidale, in modo tale che così l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita” (EG. n. 192).

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