Solennità di Cristo Re, ORDINAZIONE DIACONALE di Luigi Martino – OMELIA

Solennità di Cristo Re

ORDINAZIONE DIACONALE

di Luigi Martino

 

OMELIA

 

Stiamo vivendo una giornata memorabile, anche se in un tempo mortificato dalla pandemia.

 

Il diaconato di Luigi è un segno di grazia e di speranza, per lui e per tutta la Chiesa diocesana, che intravede in questo figlio dei semi preziosi di futuro.

Il suo cammino segnato da vicende formative significative lo hanno preparato a questo giorno con grande consapevolezza e disponibilità di cuore.

 

Caro Luigi,

oggi la Chiesa ti sceglie e ti consacra al ministero del diaconato, dimensione di vita evangelica che prelude al presbiterato.

Da sempre la Comunità ecclesiale ha riconosciuto in questa scelta una opportunità di crescita per l’intero popolo di Dio e una declinazione importante del ministero presbiterale di cui, il diaconato, si attesta come fondamento caratterizzante.

Infatti, non può esistere ministero presbiterale se non in una dimensione di servizio e di attenzione reale ai bisogni più urgenti della comunità, che si manifestano nelle fatiche umane dei fratelli più poveri e bisognosi.

 

In questo ultimo giorno dell’anno liturgico, la Parola ascoltata ci rimanda con forza ad un’esigenza di verità su noi stessi.

 

L’incontro con Cristo che viene a giudicare la storia esige una riflessione ricca di verità sulla nostra vita. Il testo di Matteo sembra fare da parallelo inclusivo al testo delle Beatitudini, indicandoci come i protagonisti del discorso della montagna siano proprio questi invisibili, “minimi”, che il vangelo di oggi ritorna a presentarci come i poveri e i bisognosi della storia.

 

La carità verso il bisognoso, il gesto di condivisione che è così semplice, umano, quotidiano, alla portata di tutti, credenti e non credenti, diviene ciò su cui si esercita il giudizio finale.

 

Matteo ci pone di fronte allo sguardo di Cristo che vede ciò che gli umani non vedono o faticano a vedere: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato …, assetato, … straniero, …nudo, … malato o in carcere” e … ti abbiamo soccorso?

 

Questo sguardo, che il vangelo ci presenta, non solo dà rilievo agli invisibili della storia, che sono spesso anche i senza voce, ma spiazza anche noi ascoltatori, i destinatari del giudizio, che restiamo tutti sorpresi nel ricevere la rivelazione di ciò che abbiamo o non abbiamo fatto.

 

Sia i benedetti che i maledetti del Vangelo dicono: “Quando mai ti abbiamo visto affamato o malato e abbiamo fatto o non abbiamo fatto?” (vv. 37.38.39.44)

Lo sguardo di Gesù, che viene nella storia,  interpella anche noi sullo sguardo e sul giudizio che portiamo verso gli altri, e giudica il tipo di sguardo che abbiamo sul povero e sul bisognoso.

 

Quante volte giudichiamo l’altro per cui …

  • il carcerato è uno che ha ricevuto ciò che si merita;
  • lo straniero è uno che disturba la nostra tranquillità;
  • il malato è uno che sconta i suoi peccati;
  • il povero uno che potrebbe lavorare di più …

 

Il giudizio divino giudica il nostro chiudere le viscere a chi è nel bisogno (cf. 1Gv 3,17). Giudica il nostro sguardo, privo di misericordia, che nell’altro vede quasi sempre solo un colpevole e non una vittima, una persona in cammino in cerca di riscatto.

 

Lo sguardo di Gesù, invece, nei suoi incontri con tante persone, è stato sempre capace di vedere, di scorgere la sofferenza degli umani, ben più e ben prima del loro peccato.

 

Ecco l’insegnamento per noi tutti: solo quando sapremo guardare l’uomo per la sua umanità, sapremo porre gesti umanissimi che hanno il sapore dell’amore vero. Sapremo regalare semplici gesti di aiuto, di vicinanza amorevole espressi in quella genuina grammatica dell’umano che Matteo indica nel suo testo: dar da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete, vestire chi è nudo, visitare chi è in carcere e chi è malato, accogliere chi è straniero (Mt 25,31-46).

 

Gesù non ha temuto il contagio della nostra povertà e ci invita, oggi più che mai, ha saperci mettere in gioco.

 

Caro Luigi, il Signore, oggi, ti chiede questo, mettere in gioco la tua vita non in un atto eroico ma in quella capacità di servizio e di dono attraverso cui l’esistenza non solo diviene opportunità di salvezza per gli altri, ma anche di crescita e di consapevolezza per noi stessi.

 

Quella del diaconato è la strada a cui il Signore ti chiama per renderti migliore e santificarti.

 

Guardando a questo brano con attenzione, comprendiamo come siamo allo stesso tempo sia coloro che sono chiamati ad amare, sia quelli che si devono lasciar amare.

Siamo poveri e fragili anche noi, prigionieri e nudi, malati, affamati e assetati, bisognosi della carità altrui.

 

La tua vita, la nostra vita, non ceda mai alla tentazione dell’onnipotenza ma sappia essere disposta, nell’umiltà, a comprendere il proprio limite.

È sulla soglia della povertà, della tua in particolare, che saprai imparare ad accogliere le povertà altrui. Riconoscendo i tuoi limiti saprai piegarti su quelli dei fratelli.

Capendo il bisogno di amore che hai nel cuore, riuscirai a comprendere il bisogno d’amore degli altri, giungendo a donarti con generosità.

 

La stola che ti verrà posta di traverso richiama quel grembiule con cui Gesù si cinse i fianchi nell’ultima cena per lavare i piedi ai suoi, indicandogli con forza che nessun atto d’amore è vero se non ci si pone in un atteggiamento di servizio umile verso quanti la Provvidenza ha messo sul nostro cammino. Servire umilmente, è quella modalità con cui Gesù stesso si è preso cura dell’umanità.

Potremmo obiettare che se c’è un servizio, esso è sempre umile ma sappiamo che non è così.

Quante volte riteniamo di dover essere gratificati, riconosciuti, amati per il nostro servire l’altro?

Gesù, oggi, chiede a te di abbandonare ogni forma di orgoglio ferito, ogni atteggiamento di presunzione, ogni pretesa di gratitudine da parte degli altri, per sposare questa umanità ferita, che Egli ama, e servirla con tutto te stesso.

 

Tra poco due sacerdoti, entrambi parroci della comunità in cui sei cresciuto, ti imporranno le vesti diaconali e la stola ti verrà posta sulla spalla, segno di quel giogo, dolce e soave, che come credenti e discepoli del Signore siamo chiamati ad assumere.

È il giogo della fede e dell’abbandono, con cui simboleggiamo il consegnarci alla guida di Cristo e del suo amore.

Pertanto, come il giogo rende possibile il condurre i buoi al lavoro dei campi, così la stola indossata significherà da oggi, e per sempre, il tuo accogliere la logica dell’Amore di Cristo, per testimoniarlo all’umanità, per riconoscerlo e servirlo nei bisognosi e nei poveri, per fare sempre della tua vita un dono autentico.

 

Caro Luigi,

lo dico a te, ma lo ricordo a noi tutti: le vesti liturgiche che indosserai non siano mai segno di ostentazione e di vanità ma abiti che ti rimandino all’interiorità della tua scelta, a quel mistero d’amore che il Signore tesse su di te e dentro di te come abito da indossare per sempre, per la tua santificazione e la salvezza dell’umanità.

 

Siamo nella gioia e con te esultiamo nel Signore certi che il tuo cammino, benedetto dal Signore, come seme fecondo trovi in te quel terreno fertile in cui fruttificare. Tutta la Chiesa di Rossano-Cariati vede in te un segno di di benedizione. Abbandonati nelle braccia di Dio e vivi ogni giorno con rinnovata fiducia.

Con te, la tua famiglia, che saluto e ringrazio per l’amore che ti dona, i fratelli presbiteri e tutto il popolo di Dio, ti consegno al Padre misericordioso datore di ogni bene facendo mia, facendo nostra la preghiera del Beato, tra poco Santo, Charles de Foucauld:

 

Padre mio,

io mi abbandono a te,
fa di me ciò che ti piace.
Qualunque cosa tu faccia di me
Ti ringrazio.
Sono pronto a tutto, accetto tutto.

La tua volontà si compia in me,
in tutte le tue creature.
Non desidero altro, mio Dio.
Affido l’anima mia alle tue mani
Te la dono mio Dio,
con tutto l’amore del mio cuore
perché ti amo,
ed è un bisogno del mio amore
di donarmi
di pormi nelle tue mani senza riserve
con infinita fiducia
perché Tu sei

Il Padre mio.

AMEN

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