Sacerdoti per una Chiesa Sinodale

Incontro col clero della diocesi – Schiavonea 16 giugno 2022

“Che cosa sono questi discorsi che state facendo?” (Lc. 24, 17)

Premessa introduttiva

Quest’ultimo incontro annuale tra noi sacerdoti vuole completare un percorso intenso e sotto certi aspetti provocatorio al fine di rilanciare il nostro essere sacerdoti per il Regno di Dio in stile sinodale. In questo senso la nostra riflessione si mantiene nell’alveo del cammino sinodale che la diocesi sta costruendo, anche proficuamente.

Per più mesi nei nostri ritiri ci ha accompagnato P. Fabrizio Cristarella che, in sintesi, ci ha ricordato che la Chiesa acquisisce uno stile sinodale ed ha un futuro solo se si impianta e si genera nella fraternità tra noi sacerdoti e nella centralità di Gesù Cristo nella vita di ciascuno senza sconti per nessuno. Questo comporta necessariamente “tornare al gusto del pane” eucaristico, come ci ha sollecitato anche Mons. Pino Caiazzo il mese scorso anticipandoci il tema del Congresso Eucaristico Nazionale che si terrà il prossimo settembre a Matera.
Chiaramente non ci può essere Chiesa in cammino sinodale senza Eucaristia “fonte e culmine della Chiesa” (Sacrosanctum Concilium, 10). Oggi, poi, in questo giorno in cui celebriamo la solennità del Corpo e del Sangue del Signore a dimensione diocesana il richiamo ci può aiutare ancora di più a caratterizzarci come Chiesa Eucaristica, cioè come Chiesa-pane spezzato e condiviso.

Se a questo aggiungiamo che il prossimo 24 giugno sarà la Solennità del Cuore Sacratissimo di Gesù, giornata della Santificazione sacerdotale, possiamo trarre da questo insieme di circostanze ispirazione feconda per questo nostro incontro sacerdotale e per questa nostra riflessione. In questo contesto familiare consentitemi di citare un brevissimo testo del beato don Francesco Mottola scritto nel 1965 e rivolto a noi sacerdoti, testo che ci richiama proprio alla spiritualità riparatrice del Cuore di Gesù:

“Dev’essere il Sacerdote un uomo spogliato, un uomo crocifisso, un uomo mangiato. Non deve pensare a se stesso, dev’essere un’idea che, spoglia di tutto, serva le anime. Deve imitare nel dolore Cristo Signore, crocifisso, che si diede, Oblato divino, a tutte le anime. Dev’essere come l’Ostia santa, l’Eucaristia, che si lascia mangiare sempre da tutti, senza chiedere mai nulla. In questa trilogia divina sta il vero sacerdote”. (cfr. Briciole di spiritualità sacerdotale, pag. 59).

1. La Chiesa che sogniamo e che vogliamo essere
Nello spirito del Sinodo, allora, anche alla luce di questo primo anno di cammino, vogliamo chiederci: che Chiesa sogniamo per la nostra comunità locale? E soprattutto che Chiesa vogliamo essere dopo il discernimento avviato? Una Chiesa annacquata, o una Chiesa di fede viva che annuncia e testimonia l’Evangelo, cioè la gioia del Signore risorto? La Chiesa oggi ha bisogno di segnali nuovi; ha bisogno di uomini, donne e sacerdoti coraggiosi per uscire dalla palude e da quelle zone d’ombra che si stanno evidenziando in questa fase diocesana del Sinodo, accanto, ovviamente, agli immancabili aspetti positivi.
Chiediamoci con lealtà guardandoci nello specchio della nostra anima: sono contento del modo in cui sto concretizzando il mio sacerdozio? Mi piace come lo vivo? Sono intimamente felice dentro di me? Teniamo presente che ognuno è attratto da ciò che gli piace; o più precisamente come dice Gesù “Dov’è il tuo tesoro, lì è anche il tuo cuore!” (Lc. 12,34): dove abbiamo noi il cuore?

E’ importante per la nostra verifica personale e comunitaria tenere in debita considerazione le situazioni emerse come risaltano dalla “Relazione-sintesi” dei lavori sinodali di questo primo anno per evitare che il tutto resti cartaceo riducendosi solo a pura accademia. E se come sacerdoti-pastori non abbiamo dato tutto il peso necessario che il cammino sinodale richiedeva, corriamo ai ripari almeno riprendendo in mano per conto nostro la Relazione-sintesi, in verità molto ricca di spunti pastorali, che ha fatto anche da filo conduttore nella Veglia di Pentecoste in Cattedrale. A riguardo, per esempio, dal capitolo sulla “Chiesa e mondo giovanile” come sacerdoti ci vengono rivolti alcuni addebiti che non possiamo snobbare. Tra l’altro è detto:

“Nella Chiesa mancano figure di riferimento che possano favorire il confronto e il dialogo con i giovani, i quali si ritrovano a cercare unicamente tra i propri coetanei o sui social le risposte ai loro quesiti… Deficitaria è anche la proposta educativa da parte della Chiesa che fatica a trovare nuove espressioni e nuovi metodi per <conquistare e attrarre le nuove generazioni>… Lo stesso linguaggio “religioso” necessita di un aggiornamento costante per riuscire a incontrare parole e gesti comprensibili, oggi, dai giovani e dai ragazzi.
Necessario anche il superamento dell’immagine di una Chiesa “severa e giudicante, dai toni moralistici e di rimprovero” per trasmettere un volto di Chiesa più gioiosa, comprensiva e coinvolgente.
Si sperimenta spesso il vuoto o il rigorismo di certi sermoni o di omelie troppo moraleggianti incapaci di comunicare in profondità e in verità il messaggio evangelico, traducendolo in parole ed esempi che tocchino la vita degli uomini e delle donne di oggi.
Una Chiesa più rivoluzionaria, controcorrente, più libera da pregiudizi, capace di sedersi con i giovani e di ascoltarli nei temi o problemi di loro interesse.… creando luoghi adeguati alle loro esigenze e aspettative di formazione, di socializzazione e di amicizia”.

E alla vicinanza ai giovani aggiungiamo una maggiore attenzione alle famiglie e alla formazione seria dei fidanzati. Si corre spesso il rischio di celebrare matrimoni nulli in partenza per nostra responsabilità perché tante volte anche nell’istruttoria matrimoniale non siamo chiari e puntuali ed anzi ci comportiamo con estrema leggerezza dando tutto per scontato.

Ancora più pungente, per quel che ci riguarda, è il paragrafo dedicato a “Chiesa e ministeri ordinati”, in cui si dice:

“Si sogna una Chiesa più povera, si richiede più sobrietà anche negli uomini e nelle donne di Chiesa, più vicinanza alla gente; si auspica maggiore familiarità con i parroci capaci di mettere a disposizione il proprio tempo, le proprie doti, i propri beni e anche la stessa casa come spazio di vita soprattutto per i giovani e per tutti i loro collaboratori. Canonica come “casa per tutti”. Si sente la necessità di sacerdoti capaci di vivere la loro vocazione al dialogo, all’incontro e all’ascolto, valori questi che nascono dalla prossimità con la vita della gente, più che di funzionari del sacro con compiti di tipo burocratico e amministrativo che potrebbero essere delegati ad altri; sacerdoti più compagni di viaggio che maestri.
Rispetto alla figura e al ruolo dei sacerdoti si desidera trovare nella persona del ministro ordinato una buona capacità di ascolto e di collaborazione, spirito di iniziativa e di accoglienza di pareri e posizioni diverse; persone di Dio, non litigiose, non di parte, non selettive e non competitive. Rispettose del cammino delle comunità nelle quali si inseriscono senza stravolgere o cancellare il percorso compiuto. Capaci di relazioni fraterne e amichevoli, in grado di dare fiducia e di condividere responsabilità e decisioni con i laici e i loro collaboratori.
Uomini di preghiera e dediti alla Parola, capaci di spezzarla tenendo conto delle persone che ascoltano, offrendo riflessioni meno teoriche e più pratiche, più coinvolgenti e meno moraliste. Persone che sappiano avvalersi degli organismi di partecipazione e capaci di confronto con tutti. Testimoni umili e disinteressati dello stile di vita proposto dal Vangelo. Persone disposte a portare la vita di Dio nei quartieri, nelle case, nelle periferie”.

Si chiede particolarmente a noi sacerdoti di essere e di proporci “come elemento di comunione, di valorizzazione di tutti i membri della comunità, fondamentale anche per aprire le comunità e le parrocchie fra di loro superando ogni forma di campanilismo o di competitività”. In parrocchia non ci si può sentire “papa e re”, in atteggiamento autoreferenziale, ignorando gli orientamenti pastorali della Chiesa locale: si distrugge la comunione e la fraternità sacerdotale, oltre che si dà scandalo alle nostre comunità che hanno diritto ad altro da parte nostra. Non dimentichiamo che noi siamo i formatori delle nostre comunità e se le cose non vanno la responsabilità è anche nostra.

In poche parole ci viene chiesto dai nostri fedeli di fare uno sforzo maggiore, per quanto faticoso, “di incontrarci (tra sacerdoti) per rispondere agli interrogativi proposti in vista di una sincera autocritica (qualora fosse necessaria) circa il proprio stile pastorale”. (pag. 2). Ci viene sollecitata, cioè, quella “parresia” (franchezza e chiarezza) interiore per metterci in linea con quanto Papa Francesco ha detto nell’omelia di apertura del Sinodo il 10 ottobre 2021, proponendoci come modello di cammino sinodale e quindi di confronto pastorale l’atteggiamento di Gesù stesso. Per comodità di comprensione leggo per intero il brano richiamato (Mc. 10,17-22) dal Papa per poi seguirne l’applicazione che ne fa:

“Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: <Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?>. Gesù gli disse: <Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti…>. Quello allora gli disse: <Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza>. Allora Gesù fissò lo sguardo sopra di lui, lo amò e gli disse: <Una cosa ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, ed avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi>”.

Sappiamo come è finita. Dal brano Papa Francesco ha tratto alcune considerazioni metodologiche per quella che lui chiama “arte dell’incontro”, considerazioni che ritengo utili anche per la nostra verifica personale:
“Un tale, un uomo ricco, va incontro a Gesù mentre Egli «andava per la strada» (v. 17). Molte volte i Vangeli ci presentano Gesù “sulla strada”, mentre si affianca al cammino dell’uomo e si pone in ascolto delle domande che agitano il suo cuore. Così, Egli ci svela che Dio non sta in luoghi astratti, in luoghi tranquilli, distanti dalla realtà, ma cammina con noi e ci raggiunge là dove siamo, sulle strade a volte moralmente dissestate della vita….
Fare Sinodo significa proprio camminare sulla stessa strada, camminare insieme. Guardiamo a Gesù, che sulla strada dapprima incontra l’uomo ricco, poi ascolta le sue domande e infine lo aiuta a discernere che cosa fare per avere la vita eterna. Incontrare, ascoltare, discernere: sono questi i tre verbi che rendono attivo il Sinodo.

Incontrare. Il brano di Mc. si apre narrando un incontro. Un uomo va incontro a Gesù, si inginocchia davanti a Lui, ponendogli una domanda decisiva: «Maestro buono, cosa devo fare per avere la vita eterna?» (v. 17). Una domanda così importante esige attenzione, tempo, disponibilità a incontrare l’altro e a lasciarsi interpellare dalla sua inquietudine. Il Signore non si mostra infastidito o disturbato, anzi, si ferma con lui. È disponibile all’incontro. Niente lo lascia indifferente, tutto lo appassiona. Sa che un incontro può cambiare la vita di una persona, anche se si tratta magari di un ragazzo. Ogni incontro – certamente – richiede apertura, coraggio, disponibilità a lasciarsi interpellare dal volto e dalla storia dell’altro. Senza formalismi, senza infingimenti, senza trucco.

Il secondo verbo è ascoltare. Un vero incontro nasce solo dall’ascolto. Gesù infatti si pone in ascolto della domanda di quell’uomo e della sua inquietudine religiosa ed esistenziale. Non dà una risposta di rito, non offre una soluzione preconfezionata, non fa finta di rispondere con gentilezza solo per sbarazzarsene e continuare per la sua strada. Semplicemente lo ascolta. Gesù ascolta con il cuore e non solo con le orecchie. Quell’uomo lo avverte subito e comincia a raccontare la propria storia, attacca a parlare di sé con libertà. Quando ascoltiamo con il cuore succede questo: l’altro si sente accolto, non giudicato, libero di narrare il proprio vissuto e il proprio percorso spirituale.
Chiediamoci, con sincerità, come fa il Papa: come stiamo con l’ascolto? Come va “l’udito” del nostro cuore? Permettiamo alle persone di esprimersi, di camminare nella fede anche se hanno percorsi di vita difficili, di contribuire alla vita della comunità senza essere ostacolate, rifiutate o giudicate? O abbiamo fretta e non abbiamo mai tempo? Fare Sinodo è scoprire con stupore che lo Spirito Santo soffia in modo sempre sorprendente, per suggerire percorsi e linguaggi nuovi, ma dobbiamo ascoltarlo e farci ascoltare. E per questo ci vuole il tempo necessario allo spirito.

Infine, discernere. L’incontro e l’ascolto reciproco non sono qualcosa di fine a sé stesso, che lascia le cose come stanno. Al contrario, quando entriamo in dialogo, ci mettiamo noi per primi in discussione, in cammino, e alla fine non siamo gli stessi di prima, siamo cambiati.
Gesù intuisce che l’uomo che ha di fronte è buono e religioso e pratica i comandamenti, ma vuole condurlo oltre la semplice osservanza dei precetti. Nel dialogo lo aiuta a discernere. Gli propone di guardarsi dentro e di discernere a che cosa il suo cuore è davvero attaccato.
Il Sinodo è proprio un cammino di discernimento spirituale, di discernimento ecclesiale, che si fa nell’adorazione, nella preghiera, a contatto con la Parola di Dio. Il Sinodo allora non è una “convention” ecclesiale, un convegno di studi o un congresso, ma un evento di grazia, un processo di guarigione condotto dallo Spirito, in cui ognuno personalmente ed insieme agli altri della comunità si lascia scavare dentro e condurre.

Questo esercizio costante di incontro-ascolto-discernimento ci aiuterà ad acquisire come atteggiamento naturale lo stile sinodale senza mandare all’inferno nessuno, nemmeno quelli che si tirano indietro perché la proposta non piace (vedi il tale del vangelo), o, peggio, se danno fastidio.
2. I soggetti del processo sinodale

A questo punto chiediamoci: chi sono i soggetti del processo sinodale? Non si tratta di inventare una nuova pastorale, ma di vitalizzare e dare volto alle strutture esistenti formando ed accompagnando i formatori: la cosiddetta pastorale generativa alla fede.

a) Il Popolo di Dio

Se uno dei requisiti fondamentali dello stile sinodale è l’ascolto reciproco, il primo soggetto da ascoltare è il Popolo di Dio, che, in tutte le sue componenti, a pieno titolo, “partecipa della funzione profetica di Cristo” (L. G., n. 12) e quindi diventa essenziale per il discernimento secondo il principio antico che “Quod omnes tangit, ab omnibus tractari debet” (“Ciò che tocca tutti, deve essere discusso da tutti”). Non c’è cammino sinodale quindi senza ascolto del Popolo di Dio. Anzi è la stessa gerarchia che trova senso all’interno del Popolo, come saggiamente fa rilevare S. Agostino: “Sono vescovo per voi, ma sono cristiano con voi!”
Sappiamo tutti che essere Chiesa significa essere Popolo di Dio, in cui “ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e la nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati. Questa convinzione si trasforma in un appello diretto ad ogni cristiano, perché nessuno rinunci al proprio impegno”. (Evangelii gaudium, 120)

E’ chiaro che questa conspiratio del Popolo di Dio ha bisogno del pastore avveduto, cui, comunque, è riservato il discernimento finale per ovviare al rischio di un pericoloso disorientamento pastorale senza uscita. Ma questo non implica eliminare l’ascolto.
Anche al mondo laicale, comunque, come è rilevato nella Relazione-sintesi diocesana, “si richiede senso di appartenenza alla comunità ecclesiale” ed il superamento di quella certa “discontinuità nell’impegno” ad assumere le proprie responsabilità, come pure di quel “protagonismo” che impedisce la rotazione dei ruoli e crea scontento all’interno della comunità. Gli incarichi pastorali, cioè, non sono a vita e non sono retaggio esclusivo di alcuni.

b) Il Pastore del gregge

Se nel passato la circolarità Popolo di Dio – Pastori si era indebolita a tutto vantaggio di una funzione dominante della gerarchia e delle sue funzioni direttive, a discapito di una concezione comunionale di Chiesa, oggi, col Vaticano II si sono aperte nuove prospettive anche teologiche. “I sacri Pastori, recita la Lumen gentium, sanno benissimo quanto contribuiscano i laici al bene di tutta la Chiesa. Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il loro ufficio è di pascere i fedeli e di riconoscere i loro ministeri e carismi, in modo che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune”. (n.30). Qui trova il suo senso vero e la sua natura la Chiesa che non è tale senza sinodalità e collegialità, attraverso forme idonee di coinvolgimento comunitario e corresponsabile sia nel programmare gli obiettivi formativi comuni, sia nel perseguirli con docilità e passione.
E qui si pongono come soggetti da coinvolgere gli organismi di partecipazione ecclesiale che non sono né da ignorare, nè da sottovalutare.

c) Gli Organismi di partecipazione ecclesiale

L’esercizio dello stile sinodale nella Chiesa – diocesana e parrocchiale – si concretizza sia con periodici momenti assembleari di base, sia attraverso gli organismi istituzionali di partecipazione ecclesiale (consiglio presbiterale, collegio consultori, consiglio pastorale, consiglio affari economici) valorizzati ad ogni livello come occasione di ascolto, di condivisione, di programmazione. Tali organismi sono gli “spazi ordinari” del discernimento ecclesiale, che, ben valorizzati, possono non solo favorire un processo sinodale normale, ma aiutano a formare a quella mentalità e cultura partecipativa e non di delega necessaria all’interno della Chiesa.
“Eppure, riporta la Relazione-sintesi diocesana del Sinodo, spesso nei consigli parrocchiali i laici non vengono coinvolti sia perché il più delle volte sono i sacerdoti a prendere le decisioni e sia perché anche da parte dei laici sussiste una forma di clericalismo e di scarsa autostima che li ritrae dal loro ruolo”. In casi analoghi noi pastori dobbiamo essere in grado di sfrontare in spirito evangelico le eventuali resistenze all’impegno. La forza del Vangelo è nella coscienza che il Popolo, con le sue specificazioni e attraverso gli organismi di partecipazione, diventi il soggetto protagonista del processo sinodale e della comunione ecclesiale, comprendendo ovviamente al proprio interno pastori e fedeli.

d) La Zona pastorale (Vicaria)

La Vicaria o zona pastorale è un altro soggetto di non poco conto per formare alla mentalità sinodale del cammino fatto insieme. La Vicaria come anello intermedio di trasmissione, di veicolo e di coordinamento periferico delle istanze diocesane, si può trasformare e deve diventare occasione di comunione e di unità pastorale di grande valore testimoniale per tutta la Zona. Si tratta di un livello di sinodalità da non sottovalutare, tanto meno da boicottare, come talora avviene. Se non funziona la Vicaria il filorosso tra centro diocesi e periferia si interrompe a danno della stessa unità e comunione tra le parrocchie. Questo impegno più che una limitazione della libertà, diventa invece garanzia di unità ed insieme esperienza feconda della hierarchica communio, la comunione piena, cioè, con la gerarchia della Chiesa sia locale che universale, a testimonianza edificante della “fides totius Ecclesiae” incarnata in ogni comunità locale e particolare, che rafforza la fedeltà e la conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Gesù ed alla sana Tradizione della Chiesa “una-santa-cattolica-apostolica”.
Conclusioni

Mi avvio a concludere. Il Sinodo avrà portato già frutto anche solo se avrà convinto noi sacerdoti e pastori, linfa vitale del cammino di Chiesa sinodale, a perseguire la cosiddetta “conversione pastorale” ed a riscoprire la gioia della nostra vocazione di “pescatori di uomini e donne” da offrire al Signore come “sacrificio di soave odore”.
Per il cammino del Sinodo è stata scelta come icona a cui ispirarsi l’immagine dei discepoli di Emmaus di Luca 24,13-35. Il racconto ci propone tre sequenze progressive:
– i due discepoli sono delusi e scoraggiati: sono i cristiani che hanno smarrito la speranza perchè delusi dalla vita e dalla stessa Chiesa: “noi speravamo che fosse Lui a liberare Israele…”. Non sempre le cose vanno come vorremmo e quindi ecco il buio dell’anima e l’allontanamento da Gerusalemme. Ma potremmo essere noi preti i delusi perché sperimentiamo spesso l’inutilità dell’impegno profuso. Si fa tanto per non raccogliere nulla. Non troviamo, cioè, rispondenza nella gente, malgrado gli sforzi. Rischia di andare in crisi la fraternità anche sacerdotale per cui si lascia Gerusalemme, si preferisce farsi da parte e tornarsene a casa propria. Di fatto si rompe la fraternità.

– il Viandante (Gesù) che si avvicina per accogliere i discepoli, ascoltarli, illuminarli: è la Chiesa/Parrocchia “in uscita” che si fa compagna di strada per decifrare la notte e lo smarrimento di quei cuori in fuga per mille motivi. Quel camminare insieme diventa mano mano cammino di fede a ritroso che riporta gli scoraggiati e i dispersi sulla strada verso Gerusalemme. L’incontro con il Risorto, riconosciuto nel gesto eucaristico dello “spezzare il pane” diventa risolutivo della crisi.

– i due discepoli, col cuore ritornato ad ardere e rimotivato, fanno ritorno alla casa della fraternità per riprendere a “fare memoria” e a “testimoniare” che “il Signore è veramente risorto e noi lo abbiamo incontrato”. I due discepoli che avevano rinunciato a camminare insieme agli altri preferendo rinchiudersi in loro stessi, quando incontrano e scoprono il Gesù vero risorgono a loro volta. E’ Lui, Gesù, a risuscitare l’entusiasmo per riprendere il cammino.

Nell’icona di Emmaus il fermarsi del Risorto, in cui intravediamo l’opera della Chiesa/Parrocchia “in uscita”, diventa esperienza di fede e di comunione eucaristica. Gesù (la Chiesa) torna ad essere l’Emmanuele, Dio che cammina con noi, che rifà con noi il cammino di ritorno verso casa, vincendo le nostre amarezze e delusioni. La Parola ed il Pane eucaristico diventano forza del cammino e certezza della compagnia di Gesù nella Chiesa. Dalla paura del fallimento si passa alla riscoperta della presenza del Risorto.
E’ questo il miracolo che dobbiamo aspettarci, ma occorre che dopo l’eventuale fuga della delusione e dello scoraggiamento riprendiamo vivo il rapporto con Gesù Parola ed Eucaristia a cui seguirà il desiderio di rimettersi in cammino insieme agli altri verso la stessa meta, osando di più e mettendo da parte una comoda pastorale di conservazione e di routine per costruire insieme una Chiesa col “volto di mamma” come lo Spirito Santo ci ispira e ci sollecita.

Di quali Sacerdoti la Chiesa ha oggi bisogno? Permettetemi di prendere la risposta dalla bocca di S. Nilo.

Una volta, a conclusione di una Sacra Ufficiatura fatta insieme tra i monaci benedettini di Montecassino e quelli di S. Nilo che si trovavano a Valleluce, col permesso dell’abate un benedettino chiese a S. Nilo:
“Dicci, Padre santo, qual è l’opera sua propria del monaco e come noi potremo trovare misericordia presso Dio?”
S. Nilo, in lingua latina rispose:
“Il monaco è un angelo e l’opera sua propria è misericordia, pace e sacrificio di lode. Come i santi angeli, infatti, offrono incessantemente a Dio un sacrificio di lode, e fra loro, per vicendevole amore, si mantengono in pace, ed hanno misericordia ed aiutano gli uomini quali fratelli minori, così, del pari, il vero monaco deve usare misericordia verso i fratelli a lui inferiori od ospiti, amare con spirito di pace i confratelli del suo stesso grado e non nutrire invidia verso coloro che gli sono preposti. Egli inoltre deve avere una fede sincera e speranza verso Dio e verso il suo padre dello spirito. Colui che possiede queste qualità conduce sulla terra una vita angelica, mentre al contrario, chi è senza fede e nutre odio e non ha cuore compassionevole diviene ricetto di ogni vizio e si dà a dividere un demonio in carne. Poiché dal momento che si è fatto monaco egli non è più un uomo, ma uno dei due: o sarà angelo o demonio. Ma io, fratelli, penso di voi il meglio ed il più conforme alla salvezza”. (Bios, nn. 74-75).

E’ un santo che parla e quello che dice del monaco possiamo ritenerlo rivolto anche a noi sacerdoti. Una vita spirituale intensa produce anche un impegno pastorale intenso ed illuminato. Crescere vuol dire sapersi pensare non mediocri ed all’occorrenza avere il coraggio, nello stile del Battista, di “diminuire”, cioè di cambiare umilmente i criteri della considerazione che abbiamo di noi stessi per imparare a “pensarci e camminare insieme”. Così sia.

+ Luigi Renzo

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